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  Il crollo del "mito" comunista

(apparso su "Presenza Sociale", 1990)

 di Paolo Dell'Aquila

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I recenti fatti dell'Est hanno stimolato un dibattito in Occidente che li ha ridotti o ad avvenimenti puramente economici, oppure a simboli di una vaga "rivoluzione dell'Ottantanove". Poche sono state le voci di chi ha voluto vedere in essi la crisi dell'intera razionalità occidentale, intesa come un moto incessante verso il dominio dell'uomo e della natura.

Il socialismo reale è emerso storicamente come il prodotto di un mito basato sulla impersonalità, sulla oggettività, sul posporre le esigenze più vitali dell'uomo ad un ideale normativo astratto (la rivoluzione). Il mondo della vita, ossia quell'insieme di certezze culturali, linguistiche, tradizionali, etniche e religiose, è stato così esorcizzato, nella speranza di sopprimerlo del tutto.

La modernità si impernia su una ragione astratta che pretende di imporsi sul mondo della vita per costruire una società "nuova" , oggettiva, scientifica. Allo stesso modo lo stato socialista è l'incarnazione di due discipline "moderne": la scienza galileana, basata sulla matematizzazione del cosmo, e la scienza della politica come tecnica di potere che ha origine in Machiavelli. Come sostiene Vaclav Belohradsky (Il mondo della vita, Jaka Book, 1981) il comunismo è l'espressione della volontà generale che sancisce una verità deducibile da una ideologia "scientifica" (il marxismo) tramite l'uso di una efficiente tecnica di potere. E' l'ideale illuminista di una ricostruzione totale della società a partire dalla ragione e dal metodo scientifico (contro l'irrazionale pregiudizio soggettivo). L'uomo, sradicato dal mondo vitale quotidiano, emancipato dai vincoli della tradizione e dalle solidarietà antiche, finisce in preda ad una febbre prometeica che vuole lo sfruttamento della natura, e il dominio sull'altro uomo in nome della civiltà ( borghese o comunista).

Con Hegel inizia il mito del progresso razionale, perché la storia diventa l'inverarsi di una Idea, che, con un moto dialettico, giunge ad un livello di perfezione sempre più alto. Marx ha semplicemente sostituito all'Idea l'antagonismo tra forze e rapporti di produzione, trasformando la storia umana in un campo di battaglia che porterà, con la rivoluzione proletaria, ad una società perfetta ed egualitaria. Come sostiene Habermas (Il discorso filosofico della modernità, Laterza 1987) il principio che sta alla base di queste teorie è la pretesa del soggetto di modellare la storia e la società umana in base ad astrazioni razionali che nulla hanno a che fare con la vita quotidiana. Come nota Crespi in Mediazione simbolica e società (Angeli, 1982) questa assolutizzazione della ragione conduce alla formazione di una élite di illuminati che si impone su una massa considerata solo come soggetto di una logica più alta. Il partito conosce la dialettica storica in base alla teoria scientifica di Marx e conduce il proletariato (folla sradicata ed acefala) al comunismo, ovvero allo stadio ultimo e più avanzato della società.

In Urss infatti, la struttura sociale poggiava (prima delle riforme di Gorbaciov) su un partito che si dichiarava possessore della Verità assoluta , e quindi sacerdote di quella Fede immanente che è il marxismo. Nel contempo, l'apparato approntava una struttura poliziesca per propagandare e favorire la lotta di classe. Il partito ed il suo apparato guidavano lo Stato che a sua volta li controllava tramite la polizia politica. In tal modo il Partito/Stato dirigeva la società manipolando l'informazione e reprimendo tutto ciò che non era conforme alle sue direttive.

L'Apparato, detentore della Scienza e strumento di una missione quasi religiosa, poteva decidere ciò che era vero o no, ciò che era reale e ciò che non lo era. Il risultato finale era una grande sintesi mitica, ove la certezza della Rivoluzione si sovrapponeva ad un nazionalismo della Grande Patria Russia. Anche l'economia era organizzata e pianificata dal Partito.

Di fronte a questo enorme apparato burocratico si poneva solo una società civile svuotata, capace di dare vita ad un mercato nero o a manifestazioni di opposizione che, sviluppando atteggiamenti privatistici, finivano per collaborare con il potere.

Secondo Egar Morin (La natura dell'URSS, Armando, 1989) la società russa era totalitaria proprio perché il Partito/Stato assommava in sé funzioni politiche, religiose, organizzative, e poliziesche, divenendo un enorme apparato burocratico finalizzato alla dittatura sulla società. Tale struttura quindi veniva rivolta alla propria autoperpetrazione ed all'imposizione di un'ideologia astratta contro il concreto, quotidiano, mondo della vita. Questo modello venne poi esportato in tutti i paesi dell'Impero ed è durato fino all'inizio dell'era Gorbaciov.

La perestrojka ha preso atto di una crisi del sistema , che è anche fallimento della razionalità strumentale, volta al dominio sull'uomo ed alla soppressione dei mondi della vita. La glasnost ha infatti testimoniato la persistenza di mondi della vita pur svuotati ed indeboliti. Laqueur in Glasnost (Rizzoli, 1989) illustra infatti la presenza della questione femminile e delle sub-culture giovanili (rock, hippies, Hare Krishna,ecc.), espressioni della società civile sovietica che la politica di trasparenza di Gorbaciov ha rivelato ed incentivato.

Sono state concesse, inoltre, alcune libertà agli intellettuali: una maggiore autonomia e la possibilità di recuperare il passato e le radici storiche della Russia. Ciò ha prodotto un risveglio generalizzato delle nazionalità e delle tensioni accumulate in mondi vitali incistiti e rivoltati.

Inoltre la perestrojka si è occupata della riduzione del ruolo del partito e del rafforzamento degli organi elettivi, per smantellare in parte una burocrazia il cui unico fine era l'autoconservazione. Si è sancita così una maggiore democrazia interna al partito, che potrebbe sfociare in futuro nel pluripartitismo.

In politica internazionale, Gorbaciov ha agito in modo conforme alla sua politica interna, facendo proposte di pace e dando più libertà ai paesi dell'Europa Orientale. Del resto, una Unione Sovietica in crisi non poteva continuare una politica di potenza, ma doveva rivolgersi al consolidamento delle riforme interne.

Strettamente collegata alla politica internazionale è la politica economica. La perestrojka ha tentato infatti di creare all'interno dell'Urss un sistema misto e, nel contempo, ha provato ad agganciarsi ai mercati internazionali. L'azione svolta verso l'interno era diretta ad originare un tessuto privatistico ed imprenditoriale. Il tentativo di resuscitare l'artigianato e di creare cooperative si accompagnava all'intento di eliminare le rigidità, le inefficienze e gli sprechi della gestione burocratica. Tuttavia la manovra economica è in parte fallita a causa dei freni opposti dalla burocrazia.

Sui mercati internazionali l'Unione Sovietica ha cercato di creare delle joint-venture con i paesi occidentali per importare capitali, tecnologie e valuta. Tuttavia lo sviluppo delle joint-venture dipende dalla convertibilità del rublo, un problema difficile da risolvere.

Come si vede , Gorbaciov ha profondamente riformato un sistema basato sul dominio della ragione, nella direzione di una maggiore flessibilità ed apertura sia all'interno che all'esterno. La perestrojka si è posta quindi come una rivoluzione dall'alto volta ad inserire l'Urss in una comunità internazionale fondata sull'interdipendenza globale e sulla ristrutturazione continua ( come nota anche Sergio Romano in La Russia in bilico, Il Mulino, 1989). L'Ovest infatti ha praticamente abolito le barriere nazionali, sviluppando un sistema di flussi comunicativi integrati di natura economica, politica, informativa, continuamente modificantesi.

La società sovietica, autoritaria, dogmatica e "razionale" non poteva che cedere di fronte a sistemi invertebrati, senza centro né vertice, come quelli occidentali. Le società post-moderne, infatti, sono caratterizzate dalla compenetrazione tra l'economia (e soprattutto la finanza), i mass-media ed i centri scientifico-tecnologici planetari, favorita dalla informatica e dalla telematica. Basti pensare al famoso lunedì nero della Borsa di New York del 1987 per capire il ruolo delle nuove tecnologie e l'integrazione internazionale in Occidente.

Il socialismo reale, come incarnazione della razionalità rivoluzionaria, era troppo burocratizzato e dispotico per poter competere con le società post-moderne, basate sull'improbabilità del normale. Niklas Luhmann in Come è possibile l'ordine sociale (Laterza, 1985) dimostra che la storia dell'occidente porta alla problematizzazione di ogni norma ed alla messa in fluttuazione della società. Tutto può essere in modo diverso, ogni fatto sociale è reversibile e contingente; la ragione, con le sue pretese totalitarie, è eliminata e l'evoluzione non trova più un fine ultimo.

Gorbaciov si è dovuto arrendere a questa realtà ed ha differenziato la società sovietica, conferendo più libertà all'economia, alla società civile e rendendo più flessibili stato e partito. Occorre però non dimenticare che la fine della ragione assolutizzata non significa di per se stessa apertura ai mondi vitali: anche in occidente questi ultimi sono colonizzati e svuotati.

Uscire dalla modernità senza cadere nel post-moderno implica allora l'avviarsi ad una "rivoluzione esistenziale" che parta dall'uomo concreto, dalle comunità vitali e dalle piccole associazioni aperte, dinamiche, per realizzare una "indipendente vita spirituale, sociale e politica della società". Costruire un nuovo sistema sociale mondiale significa partire dal basso, dai piccoli gruppi, includendoli nelle istituzioni più ampie. Come sostiene Havel (Il potere dei senza potere, CSEO, 1980) solo la "ricostruzione morale della società" può permettere un ordine umano che assicuri i diritti fondamentali, al di là delle astuzie della ragione o dei particolarismi fondamentalisti.