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Il Cittadino inesistente.
Dal Fascismo al "neo-tribalismo "
(apparso su "Presenza Sociale", 1993)
di Paolo
Dell'Aquila
Il dibattito
infuocato sullo stato assistenziale e sulla nuova finanziaria spesso viene
impostato in un'ottica sistemica, a partire dalle inefficenze statali e dalle
diseguaglianze che ne risultano.
Noi
vorremmo chiederci se parte delle responsabilità per la crisi dello stato
assistenziale non sia causata anche dalla mancanza del senso di cittadinanza.
Tornando
indietro, all'origine della storia della repubblica, è certo che il trapasso
dal fascismo alla democrazia fu possibile grazie ai partiti che, tramite il
CLN, favorirono prima la Liberazione e poi la ricostruzione. Fin dall'inizio
però, la nuova Italia era accomunata a quella precedente dall'incapacità di
formare e sviluppare una società civile autonoma. Nel nostro paese le due
culture fondamentali, quella cattolica e quella marxista, sono state incapaci
di dialogare e raggiungere una "religione civile", un complesso di
elementi di valore codificati e vissuti come patrimonio comune, che
coagulassero tutti i cittadini. A parere di molti politologi, il nostro Stato è
nato sull'inconsistenza della società civile, incapace di assumere una
dimensione autonoma rispetto all'infiltrazione dei partiti.
Il
modello di politica sociale seguito è stato rivolto ad assicurare il benessere
collettivo e la partecipazione ai meccanismi che presiedono alla divisione
sociale del benessere, ma presto ha prodotto effetti perversi (inintenzionali).
La guerra fredda, la dispersione dei centri di potere, l'interventismo statale
hanno portato ben presto all'invasione partitocratica dell'amministrazione e
della società. Il welfare state che si è voluto realizzare,
tendenzialmente di tipo istituzionale (Titmuss), universalistico e volto ad
assicurare un livello modesto ma adeguato di vita a tutti, è presto degenerato.
Lo sviluppo economico, la diffusione dell'american way of life, hanno
condotto a richieste da parte dei cittadini sempre più esose.
Lo
stato ha risposto con soluzioni consociative, burocratizzando l'economia ed
abusando del denaro pubblico. I movimenti di protesta del 1968 e gli anni di
crisi economica, sono stati superati sviluppando un modello di welfare state
quasi totale, ovvero garante, per via allocativa centralizzata di un certo
livello di vita a tutta la popolazione, commisurando quel livello in base ad
una definizione aprioristica dei bisogni, più che rispetto al merito o alle
capacità contributive dei singoli. Si Š passati all'assistenzializzazione
totale della vita del singolo, completamente deresponsabilizzato e ridotto a
"merce di scambio passiva" in cambio del suo consenso.
Questo
quadro storico è poi mutato negli anni Ottanta, come hanno visto Cesareo ed
altri in La cultura dell'Italia contemporanea (Fondazione Agnelli). La
deregulation, il maggiore decentramento delle strutture statali, hanno prodotto
un sistema più invertebrato, ma sempre in mano alle forze sistemiche. La
"repubblica dei partiti", oltre ad essere il titolo di un libro di P.
Scoppola, è anche la vivida descrizione di uno stato di cose di cui oggi tanto
si parla. Politiche sociali sempre più autoreferenziali, volte a stabilizzare
il sistema di fronte alle continue domande che venivano dai cittadini, non
hanno però impedito la perpetuazione di un sistema politico fortemente
destabilizzato e tuttavia bramoso di mantenere la sua invasione della società
civile. Quest'ultima, sempre più defilata, si è cullata nel corso degli anni
Ottanta in un privatismo narcisistico, basato sui valori postmaterialisti del
culto del sé, della qualità della vita, dei bisogni espressivi. Sono nate le
tribù del consumo, tutte in tendenza o in controtendenza rispetto a qualcosa,
comunque sempre estetizzate e fornite del look giusto per essere up-to-date.
I
movimenti politici degli ultimi anni sono sempre stati inseriti nella logica
della rivendicazione dell'identità collettiva, a partire dal singolo tema,
sganciati da una visione ideologica che descrivesse la totalità della vita
sociale.
Ai
nostri giorni la festa sembra finita: la congiuntura economica, l'unificazione
europea, lo spettro dell'egemonia tedesca ci hanno costretto a fare i conti con
noi stessi. Il sistema politico sembra diventare ipercomplesso (Luhmann): le
strategia di risposta sempre mutevoli hanno condotto ad un avvitamento dei
problemi in se stessi. La sopravvivenza della politica oggi è essa stessa in
dubbio. Dall'altra parte, c'è un neo-tribalismo che rivendica la comunità di
sangue, di appartenenza locale contro la centralizzazione e la chiusura del
sistema. Le tribù in perdita di centro sono preda di quel clima di sospensione
tra passato e futuro, che Calabrese in Mille di questi anni (Laterza) ha
analizzato. Incertezza del presente, paura del futuro, portano ad appiattirsi
sull'istante eterno, sulla fusione orgiastica con la terra. Maffesoli ha
recentemente dedicato delle riflessioni a questo problema, esaltando la potenza
liberatrice della socialità, dei piccoli gruppi in estasi, contro la violenza
tecnomorfa del sistema.
Tuttavia
tutto ciò indica chiaramente l'irresponsabilità generale, l'incapacità di
trovare una qualche mediazione fra pubblico e privato, tra stato e società
civile. Fin dall'inizio il cittadino è stato un fantasma, incapace di esprimere
un'etica pubblica ed una decisa azione sociale.
La
sfida degli anni Novanta è proprio finalizzata a ritrovare uno status di
cittadinanza più attivo, in grado di legare sistema sociale e mondi della vita.
Oggi non occorre più un cittadino inesistente, ma una persona capace di una
religione (da re-ligo) del vivere comune.